Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero del 28 dicembre 2014
Da anni assistiamo all’arretramento delle grandi imprese italiane, sia di quelle originate dalle privatizzazioni di aziende pubbliche, sia di quelle nate e cresciute come imprese private. Si sono assottigliati, fino a scomparire, gli eredi della Montedison e dell’Olivetti, si è ridotta ad un quarto la produzione nazionale della Fiat (mentre la sua cittadinanza diventava angloamericana) e si è dissolta la presenza multinazionale della Telecom. L’elenco potrebbe continuare ma ce la caviamo più in fretta dicendo che di grandi aziende italiane abbiamo solo l’Eni, l’Enel e le due maggiori banche. Un numero ridicolo per un paese come l’Italia che, pur con i suoi limiti e con la caduta precipitosa degli ultimi anni, resta il secondo paese industriale d’Europa, distanziando di molte lunghezze sia la Francia che la Gran Bretagna.
Da un paio d’anni è appesa a un filo anche la vita del più grande impianto della nostra siderurgia, lo stabilimento dell’ILVA di Taranto. Non solo il maggiore stabilimento siderurgico d’Europa, ma il più efficiente di tutti, anche se, negli ultimi tempi, l’efficienza è crollata a causa delle sempre più frequenti interruzioni della produzione, dovute ad una prolungata mancanza di manutenzione e alle conseguenze negative delle tensioni che hanno accompagnato l’incertezza circa la sorte dell’impresa. Incertezza originata dalle inadempienze di carattere ambientale alle quali si è fatto fronte con misure politiche e giudiziarie totalmente inadeguate a raggiungere l’obiettivo di rendere compatibile il futuro dell’azienda con il necessario adeguamento delle strutture produttive alle regole di salvaguardia della salute dei lavoratori e dei cittadini.
Si è trattato di una controversia senza fine e senza un dialogo costruttivo fra autorità giudiziarie, autorità politiche e responsabili dell’impresa che il governo è stato infine costretto a commissariare. Un vero e proprio manuale di come non devono essere i rapporti fra magistratura e politica per rendere compatibili le esigenze della salute e dell’economia.
Il mondo politico è rimasto paralizzato dal potere della magistratura che, a sua volta, ha brandito i codici come uno strumento da applicare in modo del tutto indifferente rispetto alle conseguenze delle decisioni stesse a alla loro concreta applicabilità.
Questo, tuttavia, riguarda il passato. Negli ultimi mesi il Commissario Gnudi ha ridato viabilità all’azienda, ne ha ridotto le perdite ma si è trovato a doverne disegnare il futuro nell’incertezza del quadro giuridico quotidiano e senza le necessarie risorse finanziarie. I potenziali compratori si sono presentati con i nomi credibili di alcune delle maggiori imprese multinazionali ( aiutate dalla presenza di partner italiani) ma le trattative sono finite come dovevano finire. Pur attribuendo un giudizio lusinghiero alla struttura attuale e alle potenzialità futura dell’impianto, i potenziali acquirenti non sono stati in grado di fare un’offerta accettabile per un impianto riguardo al quale le incertezze giuridiche e politiche impediscono di stabilire quale è il giusto prezzo.
Non restava perciò altra via che quella scelta dal governo, cioè di intervenire con capitale pubblico per il periodo di tempo necessario a fare chiarezza e a impedire la svendita del più grande complesso siderurgico europeo. Occorre ora trovare il tempo necessario per risolvere i rapporti con la magistratura e reperire le risorse per l’indispensabile piano di risanamento ambientale. Nessun imprenditore privato potrebbe infatti ragionevolmente affrontare i rischi della situazione esistente.
Molti hanno gridato allo scandalo per il conseguente processo di pur temporanea pubblicizzazione ma scandalo vi sarebbe se si fosse svenduta l’ILVA. Altri temono il veto dei funzionari europei, attenti a colpire qualsiasi traccia di aiuto di stato. Ad essi conviene tuttavia ricordare le quantità di denaro che il governo spagnolo ha versato alla sua industria dell’auto e le ingenti risorse finanziarie che la Francia e altri paesi hanno dedicato al sostegno delle imprese nazionali. Naturalmente è chiaro che le resistenze europee potranno essere vinte solo se l’Italia si presenterà a Bruxelles unita, come si sono presentati uniti gli altri paesi che, in situazioni di difficoltà, hanno unanimemente sostenuto l’industria nazionale con misure non diverse da quelle che il presidente Obama ha adottato per salvare la sua industria automobilistica.
Per dare coraggio alla città di Taranto e lanciare un messaggio a tutto il Mezzogiorno bisogna anche mettere in atto l’impegno preso dal governo riguardo al rilancio del porto, dando immediato impiego al previsto stanziamento di ottocento milioni di euro. Più di un decennio fa ci siamo impegnati a fare di Gioia Tauro e Taranto i più grandi porti del Mediterraneo. Il primo è stato soffocato dalla forza dell’illegalità e il secondo da una paralisi burocratica che ha impedito i necessari investimenti, per cui gli armatori asiatici che avevano creduto in noi ci hanno progressivamente abbandonato facendo di Algesiras e del Pireo i loro punti di approdo verso l’Europa.
Difendiamo quindi l’acciaieria di Taranto ma nella chiara convinzione che non si può sempre e solo giocare in difesa. Proprio quando diventa sempre più necessario costruire il nuovo, la crisi ha infatti spinto la politica industriale italiana in direzione di un’ esclusiva difesa dell’esistente. Gli oltre centoquaranta tavoli di crisi stanno esaurendo le energie finanziarie ed intellettuali di tutto il governo.
Eppure proprio nel momento in cui doverosamente ci occupiamo dell’ILVA dobbiamo capire che questo sforzo non basta, che occorre indirizzare cervello, cuore e portafoglio verso nuovi settori, nuovi prodotti e nuove imprese. Salvare Taranto significa solo impedire un ulteriore arretramento del nostro sistema economico. Per non morire abbiamo invece bisogno di andare avanti.
Solo una politica industriale innovativa può infatti preparare un futuro per i nostri giovani che, se vogliono legarsi al mondo nuovo, hanno oggi di fronte soltanto la via dell’emigrazione.